Un blog per vendere all'estero

Vendere all'estero è una grande opportunità per le aziende italiane, tutte, specie quelle artigianali, piccole e medie.
In questo blog lavoreremo insieme per trovare la strada migliore e avere successo con facilità.

Tra vent’anni sarai più deluso delle cose che non hai fatto che di quelle che hai fatto. E allora molla gli ormeggi. Lascia i porti sicuri. Lascia che gli alisei riempiano le tue vele. Esplora. Sogna

Mark Twain.


lunedì 29 aprile 2013

Una strategia per l'export: parte seconda

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Parte due, qui trovate la prima parte che identifica la strategia principale.

Ci occupiamo oggi di come far convergere il piano d’azione per le vendite verso quello che abbiamo chiamato evento chiave e che, come dicevamo la volta scorsa, può trattarsi



-       una fiera

-       una sfilata

-       una presentazione: alla stampa, al pubblico, a un pool di clienti invitati per l’occasione

-       un convegno



di qualche cosa che possiamo definire come momento iniziale della nostra presenza nel paese estero.



Scopo del percorso marketing: assicurarsi che all’evento chiave siamo presenti quei potenziali clienti importanti per avere successo nell’azione di export, che si tratti di clienti finali, di distributori, di rivenditori.



Azioni: invitare qualcuno non è sufficiente: quanti sono gli inviti che riceviamo quotidianamente e che finiamo per non prendere neppure in esame? Il piano d’azione deve comprendere azioni mirate che partano dall’analisi di questi punti chiave:

-       perché un cliente dovrebbe partecipare? Qual è il suo vantaggio?

-       Che cosa lo invoglierà ad essere presente all’evento?

-       Come faccio a contattarlo per invitarlo?

-       Quale argomento lo convincerà ad essere presente?



E prima ancora dovrò aver risposto a queste domande

-       chi sono i miei clienti?

-       Chi deve essere assolutamente presente a questo evento?

-       Chi oltre ad essere un cliente sarà un opinion leader capace di trascinare con il passaparola altri clienti a comperare da noi?



Il mio suggerimento è di capire quale sarà il vantaggio per questi clienti che deriverà dall’acquistare da me: ad esempio se sto proponendo un prodotto retail, che quindi ha bisogno di un canale distributivo, in quale modo sosterrò il sell out in quel paese per fare la differenza?



Che strategia vincenti avete sperimentato?

venerdì 26 aprile 2013

Una strategia per l'export: parte prima




È uscito il mio libro Primi passi per l’export che riprende e amplia molti punti tra quelli trattati qui in questo blog in questi anni.
Vorrei oggi aggiungere qualche suggerimento per una strategia semplice e completa per l’export, specie di prodotti retail, ma non solo.

Diciamo che l’elemento caratterizzante è quello della ricerca di un canale di distribuzione o comunque di clienti attraverso un evento che possiamo definire lancio e che può essere descritto come
-       una fiera
-       una sfilata
-       una presentazione: alla stampa, al pubblico, a un pool di clienti invitati per l’occasione
-       un convegno.

La strategia deve considerare tre percorsi connessi con questo momento decisivo:
-       due sono i piani d’azione di marketing e vendite che precedono l’evento
-       il terzo è il piano congiunto che ne scaturisce e che conduce alle vendite.

Come  vedete ometto volutamente tutto ciò che riguarda la produzione e la logistica, che richiedono uno studio caso per caso.

Perché due percorsi paralleli di marketing e vendite devono precedere l’evento?
Perché senza avere costruito la propria reputazione è impossibile sostenere le vendite. Se non mettiamo il mercato in condizione di rispondere alla domanda “ma perché devo comperare da questo nuovo fornitore, magari abbandonando quello attuale?” andremo in contro alla sconfitta bruciante.
I due piani d’azione paralleli devono avere questi scopi e affrontare questi temi.
Oggi vedremo il primo canale quello del marketing, nelle prossime due puntate affronteremo quello delle vendite e, infine, quello relativo al piano post evento.

Scopo del percorso marketing: attirare interesse e costruire una reputazione valida per destare la curiosità del potenziale mercato.

Azioni: inizialmente costruire un media kit, termine che indica tutta quella documentazione, cartacea e digitale, fissa e dinamica, social media, sito web, brochure e tutto quello che serve a posizionare chiaramente la propria offerta e il propri vantaggio competitivo. Quindi la strada per renderlo noto: come faccio a farlo conoscere? Uso il web? Uso la stampa specializzata? Come preparo l’evento per garantirmi partecipazione di quei clienti che per me sono importanti? Ovvio che queste domande impongono risposte personalizzate. L’importante è non trascurarle.

mercoledì 17 aprile 2013

Dario Di Vico: portare le PMi all'estero


Pubblico un articolo di Dario di Vico apparso su CorSera e sul blog Tumblr dell'autore ieri martedì 16 aprile a proposito dell'importanza di lanciare le PMI all'estero
Pizzaioli/ Mancano gli italiani, abbondano gli egiziani e la pizza cerca di “far sistema”
La pizza deve fare «sistema». Può sembrare una battuta o addirittura un ossimoro e invece il tema è all’ordine del giorno. Nel punto più nero della Grande Crisi abbiamo scoperto che una delle attività tradizionali della cucina italiana, sempre snobbata perché considerata low cost, ora può venir buona per reggere l’urto della recessione. E addirittura per produrre qualche migliaio di nuovi posti di lavoro. Con questo spirito e quest’ottimismo ieri si è aperta a Parma la prima edizione del Pizza World Show, metà fiera metà evento, perché mette insieme gli stand delle aziende della filiera agroalimentare e organizza anche il campionato mondiale dei pizzaioli. Si può discutere se sia proprio Parma la capitale della pizza italiana ma la forza e l’organizzazione della food valley emiliana hanno avuto per ora il sopravvento. L’intenzione è, [CAP2]<CF8126>si parva licet</CF>[/CAP2], di far partire una politica industriale che rafforzi i nostri brand e vada alla conquista dei mercati che crescono più, come il Brasile. Già oggi, del resto, la città al mondo che vanta il maggior numero di pizzerie non è né Napoli né New York né Londra ma proprio San Paolo del Brasile.
<CS9.5>In termini di business il mercato della pizza vale in Italia un po’ più di 9 miliardi di euro suddivisi tra 25.000 locali con servizio al tavolo e altrettanti che si limitano alla vendita al taglio. I principali operatori del settore si chiamano Rossopomodoro (gruppo Sebeto) e Spizzico (gruppo Autogrill) ma se i nostri quarti di nobiltà pizzaiola sono storicamente confermati a farla da padroni nel mondo — almeno nelle quantità — sono due catene americane, Pizza Hut e Domino’s. Come è capitato in tanti altri settori (vedi mobili/Ikea) noi italiani abbiamo sottovalutato l’importanza della distribuzione, siamo invece fortissimi nella produzione degli ingredienti (olio, pomodoro, mozzarella, farina) e in quella industriale di forni, macchine impastatrici e banchi refrigerati. L’esposizione di Parma si rivolge proprio a queste piccole e medie imprese, invitandole a uscire allo scoperto, a darsi visibilità e a puntare orgogliosamente sui mercati esteri. Uno dei convegni in programma si chiama proprio: «Quo vadis, pizza? Il futuro della pizza che verrà». Vasto programma.
</CS>Il caso ha voluto che il Pizza World Show si aprisse a Parma nel giorno in cui in città si celebrano i cento anni dalla nascita di Pietro Barilla, l’imprenditore italiano il cui nome è associato alla pasta. E proprio all’abbinata pizza&pasta la casa editrice del Mulino aveva dedicato qualche anno fa un coltissimo volume della serie «L’identità italiana», scritto dall’antropologo Franco La Cecla. In realtà a mettere in discussione l’egemonia italiana sulla pizza non sono solo le grandi catene americane, c’è un’altra sfida che stavolta viene dal basso. Dal lavoro e dal Terzo Mondo. Nelle grandi città come Milano i pizzaioli sono ormai quasi tutti di nazionalità egiziana e si stanno sempre di più specializzando. La comunità egiziana meneghina è molto rivolta al business, in due settori-chiave: ristorazione ed edilizia. Secondo i dati in possesso della comunità si stima che su un universo di 70 mila egiziani residenti nel Milanese ci siano all’incirca 10 mila partite Iva e una buona fetta di queste siano pizzaioli, alle dipendenze di connazionali o di pizzerie italiane. Molti di loro apprendono il mestiere tramite l’affiancamento ma grazie ai corsi organizzati della Camera di commercio si stima che vengano regolarmente formati 100 nuovi pizzaioli egiziani l’anno.
Del resto, secondo i numeri forniti dal presidente della Fipe-Confcommercio, Enrico Stoppani, il mercato italiano sarebbe in grado di dar lavoro ad altri 6 mila pizzaioli ma fatica a trovarli già formati. E i giovani italiani snobbano questo lavoro perché lo considerano a basso valore aggiunto. A giudizio di Stoppani, però, il pizzaiolo ha il vantaggio di potersi trasformare facilmente in un imprenditore di se stesso e comunque il consumo di pizza è dato in aumento. L’8% dei consumatori la mangia al mattino al posto della brioche e dei biscotti e la pizza al taglio take away si è ormai imposta per la pausa pranzo di impiegati e studenti.
L’intraprendenza degli egiziani non si ferma alla manodopera, continuano a nascere pizzerie e ristoranti del Faraone. In alcuni ormai il menù delle pizze italiane da ordinare è vastissimo e comprende persino la famosissima focaccia di Recco, vanto dei fornai della riviera ligure. L’esplosione calcistica del giovane attaccante italo-egiziano Stephan El Shaarawi ha poi fatto sì che sia aumentato il numero dei clienti di fede milanista che va a mangiare regolarmente la pizza dagli egiziani. «È vero — ammette David Mandolin, responsabile della Scuola italiana pizzaioli — gli egiziani stanno soppiantando noi italiani, per far una buona pizza bisogna garantire un prodotto croccante e digeribile. Non tutti ci riescono, loro sì». Per tutti questi motivi ha destato curiosità l’annuncio dato qualche settimana fa da Rossopomodoro della prossima apertura di una pizzeria al Cairo, come se i napoletani volessero portare con un contropiede la sfida in casa dei nuovi concorrenti. Mandolin riconosce che la società campana si sta muovendo bene perché si è data un marchio molto riconoscibile e ha saputo innovare. Due cose che un made in Italy «democratico» e non-solo-lusso deve applicare alla perfezione. Se vuol farcela.
[TWITTER]@dariodivico

venerdì 12 aprile 2013

Finanziare le aziende per esportare? Perché non ricorrere all'estero?




Sergio Zicari, consulente senior di Akon,  combatte a favore delle PMI spesso, come molti, proprio contro le stesse PMI: perché per quanto possa sembrare assurdo le maggiori resistenze a uscire dalla crisi e dalle sabbie mobili le sollevano proprio gli imprenditori travolti, anche in buona fede, da un immobilismo che si radica su due storici errori riassumibili nelle ben note espressioni “abbiamo sempre fatto così” e “il nostro mercato è diverso”. Zicari svolge prevalentemente il suo ruolo nel campo della ricerca di finanziamenti per le imprese, senza che questo gli preluda di offrire la sua competenza anche in altri settori. La sua biografia completa compare in coda a questa intervista.

Quali sono i problemi che le PMI italiane oggi devono fronteggiare?
Ne identificherei fondamentalmente quattro: due di natura esterna all’impresa e altri due di natura interna. I primi due sono: conquistare nuovi clienti e disporre della liquidità necessaria. Si tratta di problemi “storici” che però ora richiedono un approccio sostanzialmente nuovo. L’approccio ai clienti e alle banche oggi richiede una determinazione e una proattività a cui pochi imprenditori sono familiari. I secondi sono: un senso di sfiducia generale e una percezione di ineluttabilità degli eventi. Si noterà che tutti e quattro sono legati alla capacità di reazione dell’imprenditore non a persone, fatti o organizzazioni a lui esterne. Il dramma, oggi,  è che sembra che tutti stiano aspettando un qualche miracolo  da un “deus ex machina”, sia esso un governo nazionale, la Comunità Europea, un accordo del G8 e così via. Sembra che la classe imprenditoriale e quella politica, nonché i cittadini in genere, abbiano dimenticato quanto diceva il senatore USA Phil Gramm che «Non è il governo a generare la crescita economica, è la gente che lavora.»
Come e dove è possibile recuperare fonti di finanziamento?
Così come – per reagire alla riduzione della domanda del mercato interno – è normale cercare nuovi clienti e  fornitori più convenienti all’estero, dovrebbe essere naturale per un’impresa italiana rivolgersi anche al mercato finanziario di altri Paesi.  Non solo ci sono banche e investitori stranieri disponibili a finanziare imprese italiane, ma soprattutto a farlo non sulla base degli sterili dati di una centrale rischi o di un passato immacolato, bensì sull’esperienza della compagine societaria e sulla validità di uno specifico progetto. E senza chiedere garanzie reali o firme personali.
Ma, per quanto incredibile possa sembrare, una importante fonte di finanziamento potrebbe venire proprio dalle banche con cui stiamo lavorando o abbiamo lavorato in passato. Mi riferisco al denaro che moltissime di loro ci hanno indebitamente sottratto con le cosiddette anomalie finanziarie: anatocismo e usura. Perché non farci restituire il maltolto
Come suggerisce di muoversi alle imprese?
Con prudenza ma anche con decisione. Con prudenza perché – nel caos generale – è possibile capitare davanti a proposte, non dico ingannevoli, ma che possono rivelarsi aleatorie.  Con decisione perché non c’è tempo da perdere. Troppi imprenditori hanno aspettato a cercare  soluzioni alternative solo quando ormai avevano l’acqua alla gola. Non ci si può aspettare di trovare finanziatori  (banche, istituti finanziari, nuovi soci ecc.) quando l’osso non ha più un pezzetto di carne attaccata.
Che tipi di servizi offre in questo campo?
Finanziamenti per progetti di sviluppo anche per aziende con problemi finanziari o segnalazioni in CR; ripianificazione debiti o mutuo liquidità per chi ha immobili;  cessione immobile (per fare liquidità) continuando a utilizzarlo per la propria attività pagando un affitto con diritto di riscatto; apertura conti correnti in UK anche a soggetti protestati; emissione garanzie e sconto 100% promissory notes relative a contratti commerciali relativi a qualunque Paese (Asia, Africa, Est Europa ecc.) e qualunque categoria merceologica. Senza dimenticare la possibilità di scoprire, tramite un checkup gratuito, quante decine – se non centinaia di miglia di euro – potremmo farci restituire dagli istituti di credito (su un fido di 30mila euro, in piedi da 5 anni, facilmente c’è stato praticato anatocismo e usura per 20mila euro).
Quali errori vede commettere in campo finanziario alle imprese?
Innanzitutto una sudditanza psicologica verso le banche. Invece di trattarle come un qualunque altro fornitore (messa in concorrenza, richiesta preventivi, se non mi soddisfi ti cambio con qualcun altro ecc.), l’approccio dell’imprenditore che va a parlare con la banca è ancora quello del cappello in mano.  Un secondo grave errore è quello di fidarsi di una banca semplicemente perché ha un sontuoso ufficio dove ci si può recare fisicamente e diffidare invece di quelle banche che operano tramite consulenti esterni, come se avere una targa sulla porta dell’ambulatorio ci garantisse delle capacità e della professionalità di un medico e come se dovessimo diffidare dello sconosciuto con una valigetta da medico in mano mentre si offre di soccorrerci (e magari salvarci la vita) quando siamo rimasti coinvolti in un incidente stradale.   Terzo drammatico errore è quello di rifiutare un possibile finanziamento perché, per ottenerlo, c’è un costo da sostenere, ignorando completamente quello che è il costo (reale, benché non documentato da un’uscita contabile) che dovremo sopportare nel non ottenerlo! Quarto dannosissimo errore: le decisioni sempre rinviate (sindrome del «Ci stiamo pensando / Stiamo valutando»). Mentre l’imprenditore aspetta, il mercato corre, i concorrenti agiscono, i clienti comprano (dagli altri).
E nell’area della vendita all’estero: quali sono gli sbagli più frequenti?
Pensare che si possa vendere all’estero, fosse anche nel Paese più retrogrado, senza una attenta strategia e un preciso piano di azione e senza bisogno di investire tempo e capitali adeguati. Anche qui vale il detto «I soldi fanno i soldi» (e il suo corollario «La miseria (o la tirchieria) fa la miseria»). Pensare che all’estero si possano cogliere i “frutti fuori stagione”. C’è un tempo per sarchiare, un tempo per concimare, un tempo per seminare, un tempo per irrigare, un tempo per togliere gli infestanti. Solo dopo arriva il tempo per raccogliere. Terzo errore è credere che le competenze tradizionali dell’azienda siano esattamente trasmissibili all’estero e che non serve alcun “aiuto”. Un’adeguata dose di umiltà dovrebbe suggerire la necessità, almeno per un certo tempo, di acquisire competenze esterne.
Che cosa dovrebbero fare le aziende per rendersi competitive verso l’estero?
La parola “estero” è un termine quanto mai generico. Non possiamo pensare di vendere in qualunque nazione né, men che meno, che possiamo farlo in un certo luogo perché “è di moda”, “ci stanno andando tutti” o “c’è andato anche il nostro concorrente”. Il primo passo, quindi, è quello di comprendere qual è il “nostro” nuovo mercato. Dobbiamo apprendere il più possibile  su quel Paese dal punto di vista non solo commerciale o industriale ma anche da quello storico, sociale e umano onde evitare spiacevoli gravi errori (come ben spiega l’ultimo mio libro “Fare Business in India – una guida per la PMI”, o quello di Paolo Pugni “Export primi passi” entrambi usciti in questi giorni per la FrancoAngeli). Dobbiamo capire non solo la lingua, ma soprattutto il “linguaggio” del pubblico al quale vogliamo rivolgerci. Capirne i valori in modo da veicolare correttamente la nostra comunicazione istituzionale e “privata”.
Per farlo abbiamo bisogno di rivolgerci a chi quel mondo già conosce, a chi, in quel mondo, ha fatto già degli errori (così preziosi per noi, perché non andremo a ripeterli).
Le imprese dovranno anche dotarsi di una sufficiente liquidità per completare l’intero percorso  (dalla “speranza” al successo) senza intoppi, freni, ritardi, tentennamenti, pause.



Brevi note biografiche

Sergio Zicari è consulente senior Akón Comunicazione e Marketing, Business Partner Centro di Cooperazione Italia-Utah, nonché Responsabile nazionale rapporti con la stampa per un ente morale. Socio FERPI, scrive su comunicazione, marketing e vendite. Ha svolto ricerche di mercato in Inghilterra, Irlanda, Francia, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Ungheria e Bulgaria. È coautore di Comunicare le professioni intellettuali (Spazio RP-Ferpi, 2008); Il primo incontro non si scorda mai (FrancoAngeli, 2009); Come comunicare il terzo settore (FrancoAngeli, 2010); L’accoglienza dei volontari nel terzo settore (Cesvot, 2011); Il controllo di gestione nel terzo settore (FrancoAngeli, 2012); Fare business in India (Franco Angeli 2013) . È curatore di Come Negoziare, edizione italiana di “Como negociar”, di Homero S. Amato, Brasile (Liguori Editore, Napoli, 2012)  e di Impegno Totale, edizione italiana di “All Inn” di A. Gostick e C. Elton, USA (FrancoAngeli, 2013) (sergio.zicari@akon.it).

martedì 9 aprile 2013

Sbarcare a New York? Intervista a Francesco de Biase seconda parte




Riprendiamo l’intervista a Francesco de Biase e all’opportunità per i brand italiani di sfondare negli USA. La prima parte si trova qui.

  1. prodotto o brand che cosa è più importante in questo mercato?
Sono entrambi importanti. Perché un brand venga riconosciuto deve offrire al mercato un prodotto Eccellente. Con il prodotto si conquista il cliente, la sua mente, le sue emozioni. Grazie al prodotto l’azienda può rendere il suo brand evocativo di emozioni ed esperienze uniche. Ma, se vogliamo parlare di “importanza” allora dobbiamo chiederci cosa è più importante Comunicare: il prodotto o il brand?
Ecco, allora l’approccio deve essere diverso.
La comunicazione deve necessariamente essere incentrata sul brand.
Le aziende per vendere il loro prodotto devono necessariamente “comunicare”; ma sarebbe un errore pensare che si debbano concentrare le forze sul prodotto.
Questo vorrebbe dire che l’azienda dovrebbe ricominciare da zero ogni volta che crea un prodotto nuovo.
Il brand invece diventa sinonimo di qualità, eccellenza, stile, lusso.
Il brand diventa identificativo per ogni prodotto creato dall’azienda. Il cliente che lo riconosce riconosce automaticamente anche la qualità dell’azienda e quindi dei suoi prodotti.
  1. come si fa a costruire un brand?
FQuesta domanda racchiude in se la chiave per risolvere la sfida più affascinante che imprenditori e uomini di Marketing di ogni azienda devono affrontare.
Il Brand non è solo un Logo, è qualcosa di “intangibile” che evoca emozioni, sentimenti.
Appare però evidente l’impossibilità di dettare le tappe che conducono alla costruzione di un brand capace di generare valore incrementale (equity) rispetto agli assets tangibili, quando non si chiariscono i meccanismi che conducono alla “notorietà di brand” (brand awareness) ed infine alla “fedeltà di marca” (brand loyalty). 
Iniziamo dal primo passo, la “notorietà di marca”.
La prima  necessità è quella di costruire preliminarmente un’identità di marca e di “renderla visibile”.
Quello di “identità di marca” è un concetto molto forte che, ovviamente, sottintende la volontà di “dare forma” al brand ancorandolo alla realtà e alimentandolo di una consistenza in grado di rifuggire al mero esercizio di valori  astratti o troppo idealizzati.
Il Brand deve assumere così una vita propria, con una propria fisicità esteriore e con il proprio carattere.
La fisicità è, a grandi linee, conferita dall’identità visiva della marca quella che viene definita “visual identity” dettata in primis dal brand name, dal logo e dal payoff.
E’ impossibile definire in poche righe il plan necessario a raggiungere l’obbiettivo.
Però, in una riga possiamo definire quello che deve essere il risultato finale del plan che imprenditori e uomini di marketing devono aspirare per la propria azienda e per il proprio brand:
Far si che i clienti associno velocemente e in modo automatico il Brand a “una serie di benefici” tangibili e intangibili che si ottengono con i prodotti del Brand.
E’ una promessa che l’azienda fa ai propri clienti per il futuro e la reputazione dell’azienda e del brand dipende interamente da quanto bene gli imprenditori manterranno questa promessa.
Ecco perché (rifacendoci alla domanda precedente) è importante sia il prodotto che il brand.
  1. quali sono gli errori più comuni e dannosi che hai visto compiere ad aziende italiane?
Sono diversi gli errori che gli imprenditori italiani fanno, ma credo che il più comune ed anche peggiore che sistematicamente commettono è la presunzione.
La maggioranza degli imprenditori e manager italiani ancora pensano che basti produrre un prodotto di qualità marchiato “Made in Italy” perché il mercato si prostri e lo acquisti incondizionatamente.
Non è più così!
Benchè giornali e riviste italiane continuino a propagandare una serie di dati che sembrano estratti dal sacchetto della tombola i quali danno le esportazioni in crescita, la realtà dei fatti è che dal 2010 non è più così. Il 2010 è stato l’ultimo anno con dati positivi per le esportazioni di prodotti italiani.
Prendiamo come esempio gli States.
Fino a 15-20 anni fa, bastava avere un buon prodotto Made in Italy e presentarsi agli importatori americani con un piano marketing decoroso e facevano la fila per poterlo importare.
Ora però, il mercato USA è pieno di prodotto Italiani di qualità, le aziende continuano a presentare prodotti che, ovviamente, sono di alto livello, ma non trovano importatori e distributori.
Perché?
Perché gli imprenditori hanno la presunzione di pensare che basti il prodotto perché si interessino a loro. Non è più così!
Ora, solo le aziende disposte investire prima di tutto in operazioni di Marketing e Comunicazione vengono prese in considerazione.
Bisogna presentarsi con un budget da investire in Brand Building per poi poter vendere il prodotto.
Di prodotti di alta qualità ce ne sono a migliaia, ma le aziende disposte ad investire in Brand Building si contano sulle dita di due mani.
  1. che cosa dovrebbero fare invece?
Le cose da fare sono molteplici e diverse per ogni tipo di azienda e prodotto.
Però una le accomuna tutte, indipendentemente dal prodotto.
Il primo passo che le aziende e gli imprenditori italiani devono fare è quello di programmare una strategia di Brand Building e MarCom per far conoscere il Brand (Brand Awareness), per posizionare il proprio brand e di conseguenza il proprio prodotto nella fascia di mercato adatta per il target di clienti al quale ci si rivolge.
E’ un operazione che richiede da 12 ai 18 mesi, dipende dal prodotto e dal tipo di investimento; ma è necessario programmare una finestra temporale ampia perché si possa aver successo.
Ma i risultati arrivano. Garantito!
Saranno poi l’importatore e il distributore con la rete commerciale a presentarsi per chiedere di commercializzare il brand e  il prodotto.
Questo vuol dire anche sedersi al tavolo per discutere il contratto di commercializzazione con una posizione più forte.

  1. puoi dare 3 consigli di base alle aziende che vorrebbero esportare le loro creazioni/creature? 
Dare consigli è difficile senza conoscere l’imprenditore e l’azienda; anche perché ogni realta è diversa, con una storia diversa e problemi diversi.

Però posso dire cosa ho fatto io per la mia azienda.

Il primo passo è stato, ovviamente, preparare un Marketing Plan per i miei prodotti e servizi, una pianificazione che tenesse conto del mio mercato di riferimento e del target di clientela alla quale volevo vendere i miei servizi.

Lo stesso MP mi ha permesso anche di pianificare il budget necessario per poi tagliarlo su misura per quello che erano le reali disponibilità della mia azienda.

Il secondo passo è stato pianificare le attività di Brand Building e Marketing che permetessero alla mia azienda di farsi conoscere.

Quindi abbiamo creato una serie di eventi a tema dove il nostro brand avesse la massima esposizione mediatica. Attenzione, non ho detto “abbiamo fatto pubblicità”!

Ancora si pensa che fare pubblicità serva a far conoscere un brand. Non è così, la pubblicità serve a far conoscere un prodotto, il brand va costruito con la comunicazione.

I nostri eventi erano tutti incentrati su temi come Made in Italy, Vacanze Italiane, Servizi di Concierge, etc.

Abbiamo cercato partner locali che fossero molto forti nelle PR e nella gestione degli eventi ed è stato un successo a costi veramente accessibili a tutti.

Anche perché, il nostro punto di forza è stato creare le sinergie con aziende che avessero in programma lo stesso tipo di strategia.

Per noi è stato semplice anche perché un parco clienti VIP lo avevamo già ed è servito da volano per attirare nuovi clienti ai quali ancora non avevamo accesso.

Il terzo passo è stato pianificare una continua attività di Brand Positioning e Marketing che ci permettesse di rafforzare la nostra presenza nella vita del cliente.

Attività che ci hanno permesso di raccontare mese dopo mese la storia e l’evoluzione della nostra azienda e del nostro brand.

Ogni volta che abbiamo un servizio nuovo, una destinazione nuova da proporre, organizziamo un evento per presentarlo, invitiamo clienti VIP e partner … il risultato è stato creare una connessione diretta con le “emozioni” sia dei clienti finali che dei partner.
Ogni volta che sentono parlare o vedono il nostro Brand, ricordano le emozioni provate durante gli eventi, sognano le destinazioni proposte e… vogliono riprovarle.

Come diaciamo sempre noi:

L’amore per il bello è gusto. La creazione del bello è arte.

We keep inspiring luxury dreams.

sabato 6 aprile 2013

Sbarcare a New York? Se lavori sul brand si può. Intervista a Francesco de Biase parte 1




Portare l’Italia dentro a New York nelle più spettacolari ambientazioni per farsi conoscere nella più favolosa città del mondo non è più solo un sogno oggi per le PMI italiane, per gli stilisti e per gli artigiani. Grazie al fatto che quest’anno è l’anno della cultura italiana negli States Francesco de Biase ha creato un modello che permette a tutti, con investimenti contenuti, di essere introdotti nella Grande Mela per giocarsi la loro partita e sfruttare l’opportunità di farsi strada. E non solo a Manhattan ma anche in altre metropoli interessanti per il business italiano degli USA.
Abbiamo chiesto a Francesco de Biase, che dal 2006 dirige l Global LifeStyle Ltd., l’azienda che ha fondato una Luxury Tailor Made Tour Operator & Concierge Services Specialist company con base a Londra, di spiegarci meglio di che cosa si tratta questo suo nuovo progetto.
Ma prima voglio riportare una sua affermazione che chiarisce bene l’approccio, che condivido e reputo vincente, che ha guidato le scelte per la sua azienda e per questa nuova idea:
da quando siamo nati abbiamo iniziato a lavorare con clientela di alto profilo americana, gli anni seguenti sono sempre segnati da crescite sia in termini di fatturato che di parco clienti acquisito.
Il tutto sempre senza una sola sterlina investita in pubblicità. Solo comunicazione e marketing.
Ho sempre detto a tutti i miei soci e collaboratori: farò pubblicità per la nostra azienda e per i nostri brand il giorno in cui vedrò la pubblicità della Rolls Royce.
Ora è la volta di un nuovo progetto: Made in Italy Flavors.
Un contenitore Marketing & Communication che permette ad aziende di alto livello di fare Brand Building e Brand Positioning investendo in modo intelligente”.

Ecco la prima parte dell’intervista
  1. ci descrivi brevemente il progetto?
Made in Italy Flavors nasce anche grazie alla richiesta di alcuni nostri clienti di poter partecipare a Esperience Esclusive dal Sapore Italiano anche senza per questo dover venire in Italia.
Così abbiamo creato una serie di eventi VIP per clienti di alto profilo a numero limitato, eventi organizzati una volta al mese a NY, Miami, Los Angeles che hanno come tema principale il Made in Italy, quindi cucina, vino, musica classica e lirica, etc. Sono eventi organizzati in modo tale da poter essere utilizzati dalle aziende per le loro strategie di Brand Building, Brand Positioning, Marketing & Communication con dei costi assolutamente accessibili.
  1. perché una azienda italiana dovrebbe partecipare?
Sono molte le aziende e non solo giovani, che non hanno ancora intrapreso la strada per conquistare quote di mercato all’estero e per vari motivi.
Uno dei motivi principali è sicuramente imputabile agli investimenti necessari per iniziare una strategia efficace di Brand Building. L’errore più comune che gli imprenditori Italiani fanno è quello di pensare che per esportare e vendere il proprio prodotto all’estero sia necessario avere una rete commerciale. Niente di più sbagliato. Non è più sufficiente fregiarsi del marchio “Made in Italy” perché sia garanzia sufficiente ad assicurare volumi di vendita elevati, ma neanche minimi.
Ciò che bisogna fare oggi è vendere il Brand non il Prodotto.
Per poter vendere un prodotto, bisogna che il mercato lo riconosca come “Brand” e quindi lo acquisti.
Le aziende Italiane dovrebbero partecipare perché hanno così modo di presenziare come sponsor con il proprio Brand ad eventi esclusivi e iniziare così il processo di Brand Building e Brand Positioning con investimenti minimi. (NdB che può essere  consolidato ad esempio utilizzando 411 Voices come suggerisce questo video)
Questo perché non è necessario dover sopportare un investimento in Marketing e Comunicazione di diverse centinaia di migliaia di euro da soli, con “Made in Italy Flavors” le aziende possono accedere a eventi di alto profilo organizzati da noi organizzati per promuoversi e far conoscere il proprio brand e di conseguenza i propri prodotti.
  1. che tipo di aziende potrebbero avere successo?
Tutte quelle aziende medio piccole che producono prodotti del Made in Italy di altissima qualità, ricercati, fatti a mano e anche su misura su specifiche richieste del cliente. Artigiani delle scarpe, dell’abbigliamento, del mobile, della ceramica, dell’enogastronomia, dell’ospitalità.
Tutte quelle aziende che hanno un prodotto unico e che possono renderlo ancora più unico per il cliente di alto profilo.
  1. perché gli USA in questo momento e non Russia Cina o Brasile?
Beh, il 2013 è stato battezzato “Anno della Cultura Italiana in USA”, è l’anno del Bicentenario di Giuseppe Verdi; due temi che noi stiamo utilizzando per i nostri eventi e che permetteranno ai nostri partner di godere di una Luce particolare per il loro Brand.
  1. come sta andando il mercato del lusso e dell'esclusività nel mondo?
E’ un mercato che sembra non conoscere crisi. Anche il 2013, secondo le previsioni, sarà un anno di grande crescita per i grandi Brand del settore del lusso.
Dalle casa di alta moda ai servizi del settore del lusso, comprese le Vacanze Tailor Made di Lusso, tutte le aziende registrano cresicte annuali, che nella peggiore delle ipotesi possono attestarsi intorno al 12%-14%.
Però è doveroso aggiungere una piccola nota.
Ho parlato di Brand del lusso e non di prodotti di lusso. E’ stato voluto.
Mi spiego meglio, ci sono tante aziende artigiane in grado di fare prodotti di altissimo profilo, unici ed esclusivi… Ma non sono conosciuti!
Ecco perché se qualcuno di loro legge questa mia risposta potrebbe avere qualcosa in contrario sulle mie affermazioni.
  1. che cosa va inteso in realtà per lusso ed esclusività?
Il “Lusso” è il Meglio di ogni forma d’arte e, come ogni forma d’arte, deve essere in grado di evocare un emozione. Di conseguenza, così come ogni capolavoro… la qualità è intrinseca nel prodotto.
Il Lusso e l’Esclusività appartengono alle emozioni e non necessariamente al prezzo.
Sicuramente tutto ciò che è lusso può essere costoso, ma non necessariamente tutto ciò che è costoso è Esclusivo.
Posso acquistare una borsa di pelle molto costosa, ma se l’azienda la produce in più di un esemplare allora non sarà Esclusiva.
L’artigiano che produce la borsa basandosi su un mio desiderio, su una pelle particolare, con rifiniture scelte da me, allora realizza un prodotto che oltre ad essere lussuoso è anche Esclusivo. Perché avrò solo io quella borsa e non sarà replicabile.

La seconda parte dell’intervista andrà in onda martedì 9 aprile